Anche quest’anno Seravezza Fotografia conferma le proprie linee guida presentando un programma ricco di eventi di grande spessore e qualità, primo fra tutti la mostra fotografica di Frank Horvat dal titolo "House with Fifteen Keys" che si tiene al Palazzo Mediceo nell'ambito di Seravezza Fotografia 2014, è sostanzialmente una retrospettiva che racconta 70 anni di attività fotografica del grande maestro nato nel 1928 in Italia ad Abbazia, oggi cittadina croata con il nome di Opatija. Fotografie di reportage, moda, ritratto, paesaggio e fotografia di strada sono sapientemente raccolte e riconsiderate dall'autore in un'esposizione di duecentonovanta fotografie suddivise in 15 chiavi di lettura non mancano all'interno di questa raccolta anche estrapolazioni da progetti fotografici personali realizzati dagli anni '80 ad oggi.
L'eccezionale lavoro fotografico fino ad oggi realizzato da Frank Horvat e l'importanza dei titoli dati alle “15 chiavi” come ad esempio “Luce”, “Condizione Umana”, “Voyeur” confermano Frank Horvat come uno dei piu importanti fotografi contemporanei e che si puo permettere tranquillamente di affermare che la fotografia è l'arte di non premere il pulsante.
photography is the art of not pushing the button
Perchè le chiamo chiavi?
Ho un'età in cui ci si guarda indietro e ci si cerca un senso.
Ho avuto la fortuna di fotografare durante 70 anni, in un periodo in cui il mondo è cambiato più che in qualsiasi altra epoca.
Di acclimatarmi in sei paesi e di visitarne parecchi altri.
Di pensare, parlare e scrivere in quattro lingue.
Di fotografare ogni sorta di soggetti da prospettive diverse e con tecniche diverse.
Di avere altri interessi che le fotografia - come la scrittura e l’oleicultura.
Il mio eclettismo non mi ha sempre avvantaggiato: alcuni hanno messo in dubbio la mia sincerità. Altri hanno trovato che le mie immagini erano poco riconoscibili. Come (dicevano) se fossero state realizzate da diversi autori.
Questo mi ha portato a riconsiderare la mia fotografia e a cercarvi un denominatore comune. Non ne ho trovato uno - ma quindici. Che si ritrovano in tutti quegli anni. E li ho chiamati 'chiavi': Luce, Condizione Umana, Tempo Sospeso, Voyeur, Occhio a Occhio, Metafore, Fa pensare a..., Uno, Due, Tanti, La vera donna, Fuori Luogo, Cose, Foto Fesse, Autoritratti."
Frank Horvat
2003, Cotignac (France), Grègoire's Hands |
Tutti sanno che fotografia significa scrittura con la luce. Come Niepce, Daguerre e Talbot hanno cominciato a farlo attorno al 1830 e come un miliardo di persone lo fa oggi con i telefoni cellulari.
Ciò che è un po 'diverso - nel mio caso e in quello di certi altri - è che reagisco quasi di più alla luce stessa che agli oggetti su cui cade. Al punto che, fin dalle mie prime foto degli anni '50, ho evitato di utilizzare il flash, perché la sua luce non si vede che quando la foto è fatta. Ed è anche per questo che mi astengo dal fotografare - anche se una persona (o una situazione) mi sembrano interessanti, se la luce non corrisponde a quello che intendo.
D’altra parte è vero che la fotografia non è solo una questione di luce, ma anche (e soprattutto) di tempo. O meglio: di sospensione del tempo. Onde l'istante decisivo, secondo la famosa frase di Cartier-Bresson.
La luce, per me, è tanto più decisiva che è fugace, come il tempo. Ed è per questo che il sole di mezzogiorno mi incita meno a fotografare che gli ultimi raggi del crepuscolo, o le macchie di luce e d’ombra in un bosco, o la luce riflessa di un interno, continuamente modificata dalla mia posizione e da quella delle persone che fotografo.
E anche per questo che i precursori della fotografia, secondo me, non erano tanto i pittori del Quattrocento, con le loro leggi della perspettiva e la loro camera oscura, né Caravaggio con i suoi effetti di luce violenti, ma il 22enne Rembrandt, con il suo autoritratto, adesso al Rijksmuseum di Amsterdam, dove la più gran parte del suo viso, tranne la sua guancia destra e la punta del naso, è nascosta da un'ombra apparentemente fortuita, come per dire: queste sono le parti che devono rappresentare il tutto.
1950, Polesine (Italy), Paesants, replacing their oxen, lost in a flood |
Quando mi si chiede cosa voglio dire con queste parole, la miglior risposta che posso dare è che, per me, la condizione umana significa avere problemi, e che le persone che ne hanno mi sembrano più interessanti di quelli che sembrano non averne.
Gli artisti lo hanno capito da molto tempo, particolarmente gli artisti occidentali, e i fotografi non hanno esitato a seguirli.
Molti hanno fotografato la miseria, le malattie e la guerra, certi ne hanno fatto delle magnifiche foto, che li hanno resi celebri. Alcuni si sono sentiti in colpa per questo successo, come se fosse stato a spese delle sofferenze altrui, e si sono giustificati spiegando che la loro intenzione era di sensibilizzare l'opinione pubblica, nella speranza di evitare sofferenze future. Io tendo a essere scettico a questo proposito, anche se credo alla loro sincerità e se ammiro il loro coraggio.
Io stesso non ho mai fotografato la guerra, probabilmente perché mi è mancato il coraggio fisico. Ma anche in tempo di pace non dirigerei il mio obiettivo su un parente o un amico in una situazione dolorosa. Semplicemente perché non mi piace l'idea che la mia arte si nutra del suo dolore.
È vero che con degli estranei non sono sempre stato così discreto. In parte perché l'interesse per certe situazioni estreme, dalla parte delle riviste per cui lavoravo, mi sembrava naturale e comprensibile. Come non biasimerei i passanti che fanno cerchio intorno ad un incidente d'auto: dopo tutto, la sfortuna dell’accidentato è affare loro, ognuno si può dire che la stessa disgrazia potrebbe capitare a lui. La loro curiosità può anche essere considerata un atto di sim-patia o di com-passione, nel senso etimologico di queste parole, cioè di partecipazione alla sofferenza (pathos, passio) di un simile.
E' vero che, per un fotografo, il confine tra l’eccessiva invadenza e l’eccessivo distacco può essere incerto. Tutto quello che posso dire è che ho fatto del mio meglio, cercando di suggerire i problemi piuttosto che metterli in avanti.
1962, Cairo, swinging girl |
Ogni fotografia, naturalmente, è una sospensione del tempo. Ma certe lo sospendono più che altre. O viceversa: l’apparecchio fotografico può sospendere qualsiasi momento del tempo, ma alcuni sembrano più degni d’essere sospesi che altri.
Come dice Faust a Mefistofele, lanciando la sua scommessa:
Se mi senti dire all’attimo :
'Non mi sfuggire, sei troppo bello!'
Allora accetterò le tue catene,
Allora sarò pronto a morire!
Che allora la campana suoni a morto!
Che tu sia sciolto dal tuo servizio!
Che l'orologio s’arresti, la lancetta cada
Che il mio tempo sia finito!
C'è davvero qualcosa di faustiano (o di mefistofelico), in questo strumento, che ci permette di gelare il flusso che ci travolge. Tranne che alla fine del racconto di Goethe, Faust è redento, il tempo è ripristinato e i doni di Mefistofele si rivelano essere nient'altro che finzione.
Qualcosa di simile si potrebbe dire della fotografia: ho dunque davvero creduto, ogni volta che premevo lo scatto, che quei momenti fossero degni di essere conservati? Credi davvero, tu spettatore, che il flusso sia stato sospeso?
Non sono certo di come rispondere alla prima domanda: tanti anni sono passati, tante volte ho riconsiderato e ristampato queste immagini! Quanto alla seconda, la risposta spetta a te.
1952, Lahore (pakistan), Hira Mandi, young dancer |
In senso stretto, voyeur è chi cerca una gratificazione sessuale con gli occhi, invece di cercarla 'normalmente' con un organo più appropriato. In senso lato, è chi desidera entrare, introdursi, possedere con lo sguardo, e non necessariamente con un intento sessuale.
In questo senso, ogni fotografo è voyeur. Mi riconosco in questa definizione e ammetto il voyeurismo come una delle chiavi della mia casa.
Solo che quando ho selezionato le foto di questo capitolo, quelle che sembravano convenire non erano tanto associate al sesso, quanto ad un lieve senso di colpa, di cui o mi ricordavo (quando potevo ricordare le circostanze della ripresa), o che riemergeva mentre guardavo i provini.
Più simile ad un pizzico che a un morso della mia coscienza, per aver abusivamente sfruttato le debolezze altrui. Perché incontestabilmente il voyeurismo è un rapporto unilaterale, in cui chi lo pratica ignora iI desideri (o i rifiuti) dell’altro.
Chissà se questo famoso stilista avrebbe gradito di vedersi in un atto così femminile! O questo tenero padre bengalese di scoprire la repugnanza che sembra ispirare alla figlia (se poi era veramente sua figlia...)! O questa signora sulla Madison Avenue, che ha forse passato ore davanti allo specchio, cercando di ripristinare la bellezza dei suoi begli anni, di vedersi come l'ho vista nel mio mirino!
Non che io trascorra molte notti insonni a meditare su queste reazioni ipotetiche. Ma il voyeurismo, come altre attività ossessive, ha i suoi contraccolpi di rimorso.
1958, Paris, advertisement for lingerie |
Quando una persona guarda la mia macchina fotografica, mi astengo dallo scattare - in contrasto con la diffusa convinzione che gli occhi siano la porta dell'anima (o qualcosa del genere).
All'inizio, questo partito preso veniva dalla mia ammirazione per Cartier-Bresson e per il suo ideale del 'fotografo invisibile' - cioè per una certa oggettività in relazione al reale (un po 'come la cosa in sé di Kant...). Una chimera, naturalmente, che ha finito per diventare una convenzione come tante altre. Finchè William Klein la capovolse, includendo, nelle sue scene di New York, uno o due passanti che guardavano dritto nell'apparecchio e che, lungi dal ridurre la validità della testimonianza, la rendevano tanto più credibile.
Questo non mi ha impedito di restare fedele al precetto di Cartier-Bresson, forse perché un'illusione d'invisibilità corrisponde più al mio temperamento che una prova di presenza. E sono rimasto fedele a questo modo di scattare, (almeno quando le circostanze me lo permettevano), anche perché ho presto capito che gli sguardi appassionati delle mie modelle, lungi dall'essere delle "finestre sulle loro anime" erano il più facile e il meno impegnativo dei loro stereotipi.
Ma a volte mi capita che la persona davanti a me - per sorpresa, per paura, per collera o magari per tenerezza - mi indirizzi improvvisamente un vero sguardo - a me e non alla macchina fotografica. Se riesco a coglierlo, avrò fatto una vera fotografia, che avrà meritato d’essere stata fatta.
Come in questo primo piano di Mate. Non era uno dei nostri migliori giorni. In ogni modo le dispute, tra noi, erano frequenti. Ma quel giorno dovevo testare un nuovo obiettivo e lei accettò di posare. Benchè ancora un po' risentita e pur guardandomi con un misto di rancore, di dolore e d’affetto.
Ci lasciammo e restammo lontani per parecchio tempo, fino a quando ripresi a visitarla nella sua stanza d'ospedale, durante gli ultimi mesi della sua vita. Marco, il più giovane dei nostri figli, aveva appeso questa foto ad una delle pareti, di modo che i medici e le infermiere potessero vedere chi era stata la paziente di cui si occupavano.
Uno sguardo così non si fotografa tutti i giorni. È per questo che quando le persone mi guardano, preferisco spesso non scattare. Perchè mi paiono più presenti quando le vedo intente ad altro, e allora perfino i loro profili (o i loro dorsi) mi possono sembrare rivelatori, o in ogni caso più che uno sguardo di circostanza. Ma l’eccezione, come si sa, conferma la regola.
1953, New Delhi, Jantar Mantar, ancient astronomical device |
Una metafora è un'idea che rappresenta un'altra idea - o più idee alla volta, secondo il modo in cui è intesa o compresa.
Un simbolo è quasi lo stesso, ma non del tutto. La tartaruga, per esempio, è un simbolo di lentezza, come nel celebre paradosso della sua gara con Achille, e in innumerevoli allegorie, emblemi, pubblicità e icone; ma le tre tartarughe della mia foto sono metafore, perché non fanno solo pensare alla lentezza.
Metafore di cosa? Non ho l’intenzione di dirvelo, per non guastarvi il gioco e non privarvi del piacere di indovinare. Dirò solo che le risposte sono molteplici e che spero che ne troviate anche altre, alle quali non avevo pensato. Anche se vi possono sembrare tirate per i capelli, o se si escludono a vicenda.
Le metafore sono i mattoni di cui è fatta la poesia. 'La vita non è che un fantasma errante, un povero attore, che si agita e s’affatica un'ora sulla scena, e di cui poi non si parla più: una favola, raccontata da un idiota, piena di strepito e di furore, e che non significa nulla...' . Tutta la sostanza di Macbeth è in queste righe.
Ma le metafore sono anche la sostanza della pubblicità, figlia mercenaria della poesia. E della fotografia, che - almeno come la pratico io e contrariamente ad un’idea diffusa ma falsa - è solo una lontana cugina della pittura, e piuttosto una specie di figlia illegittima e schizofrenica del progresso e della poesia.
1984, Paris, Claude |
Nel 1981, seguendo il percorso del viaggio in Sicilia di Goethe, ho sostato a Monreale, una piccola città dove l’illustre viaggiatore visitò un vecchio prete, che condivideva la sua passione per la mineralogia, e di cui Goethe descrive a lungo la collezione. Ciò a cui non accenna (e che io stesso allora ignoravo) è che questa città è celebre per la sua basilica bizantina, paragonabile a San Marco di Venezia, ma indifferente a un capofila dell'Illuminismo, per cui i dodici secoli tra la caduta dell'Impero e il Rinascimento non sono stati altro che un intervallo di tenebre.
Un Goethe odierno non potrebbe permettersi un tale angolo cieco e andrebbe almeno a cercare Monreale su Google, prima di atterrare a Palermo. Solo che un tale personaggio è difficile da immaginare. Dal 18° secolo in poi, le conoscenze e gli strumenti per acquistarle si sono immensamente estesi, anche se qualcosa d’altro s’è perso.
Non che oserei lamentarmene. Dopo tutto, l'estensione delle conoscenze mi permette di vedere ciò che era nascosto ad uno dei più grandi intelletti di tutti i tempi. Anche se il mio orizzonte, in consequenza a questa perdita, è un po' sfocato.
Questa combinazione di progresso e di regresso potrebbe essere un modo di descrivere la nostra cultura post-modernista. Oggi, sugli schermi dei nostri computer, tutti gli approcci all'arte, dall'Età della Pietra alla Biennale di Venezia, sembrano contemporanei e comparabili. Tutto può essere scaricato e sfruttato per un commento, una citazione o un’associazione d’idee, nei limiti (purtroppo ristretti) della nostra curiosità, della nostra consapevolezza e della nostra capacità di attenzione.
È questo che mi viene in mente quando cerco di spiegare cosa intendo per fa pensare a ...
Che comunque è solo una delle mie chiavi. Nella maggioranza dei casi, la mia prima ragione per lo scatto è la luce su un soggetto. Poi, quasi come un ripensamento, vengono le idee, i sentimenti, i ricordi e le aspettative (consci o inconsci) che associo a ciò che vedo. Ed è vero che il museo immaginario, come Malraux lo chiamava, non è che una parte del mio arsenale.
1959, Paris, Monique Dutto at métro exit |
Uno va con la prima persona del singolare.
Uno è come solo, isolato, separato, particolare, diverso.
Come il forestiero nella folla, il lupo solitario, l'ultima sigaretta, l'albero in cima alla collina, il gallo nel pollaio, il capitano sulla nave che affonda, il primo amore.
Come il mio naso, la mia bocca, il mio cuore, il mio ombelico, eccetera.
Come la Terra, il Sole, la Luna, l'Universo. Come Geova (o Allah , se preferite). Come l'asso di picche.
Come mia madre, come mio padre, come me.
2008, Venezia (Italy), illustration to the erotic poems of Giorgio Baffo |
Due va con la seconda persona del singolare.
Due sono gli occhi, le orecchie, i seni, le chiappe, le mani e i piedi.
Due sono moglie e marito, cane e padrone, giorno e notte, il bene e il male, la sinistra e la destra, il yin e il yang.
Due è quello che ci vuole per il dialogo, gli scacchi, l'uguaglianza, la somiglianza, la differenza, il contrasto, la competizione, l'amicizia, la guerra.
E naturalmente per l’amore: per dire due, devi riconoscere l'altro, e ciò che avviene tra te e l'altro.
1956, Paris, at the Sphynx |
Tanti va con la terza persona del plurale.
Devo ammettere che ho sempre avuto problemi con questa persona.
A scuola, mi prendevano in giro.
Loro. Gli altri. La folla. La gente. La massa: non ti curar di lor, ma guarda e passa.
La fotografia, per me, è anche stata un modo di prendere la rivincita: adesso sono io che ho il dito sullo scatto.
Ma d’altra parte, non sarei un fotografo accettabile, se non provassi per loro, o almeno per alcuni di loro, un certo calore in quanto individui.
1976,Paris (France), for Vogue France |
Questa non è una chiave per tutta la mia casa. Lo è solo stata per una parte, e per un periodo.
Negli anni della mia adolescenza e della mia prima giovinezza, la donna dei miei sogni era all’opposto di mia madre (Sigmund Freud non ne sarebbe stato sorpreso...). Cioè alta, longilinea, di quelle che ci si volta a guardare per strada. Insomma l’esatto contrario di un’intellettuale.
Al punto che la fotografia di moda m’era sembrata una terra promessa, dove tutte quelle che si presentavano davanti al mio obiettivo sembravano uscire da questo stampo. Ma, ahimè, avvolte in scorie, dalle quali non potevo liberarle: cioè abiti da mattina o da sera, tailleurs, gonne, cappotti, cappelli e altri accessori, dei quali pochi erano di mio gusto, ma che loro, come ben sapevo, erano pagate per far valere, ed io per fotografare.
Meno indispensabili mi parevano i trucchi di cui si servivano (e spesso abusavano) per accentuare i doni che avevano ricevuto dalla natura: rossetti, smalti, fondotinta, mascara, ciglia finte e parrucche, allora molto in uso perchè potevano sostituire ore di pettinatura: le top model ne avevano valigie piene, che trascinavano da uno studio fotografico all'altro.
Tutto ciò somigliava poco ai miei sogni. Ma peggio ancora erano i loro stereotipi : lo sguardo ardente, il sorriso radioso, l’aria sognante, le labbra semiaperte, come alla soglia di un orgasmo, il riso isterico, senza dimenticare il contegno fiero, la curva seducente dell’anca, l’abbandono del collo. Distruggevano l’idea che mi volevo fare di loro, rendendosi meno credibili e quindi meno amabili. In modo che, per trovare la vera donna (o almeno una sua traccia), le mie sedute fotografiche diventarono battaglie contro mulini a vento.
‘Levati quel rossetto! Togliti quelle finte ciglia! E se provassimo con i tuoi veri capelli? E per l’amor del cielo non sorridere! E soprattutto non guardare mai verso l’apparecchio!’
Finirono tutte per odiarmi, le top model perché le privavo del loro repertorio, e soprattutto delle parrucche che avevano pagato l’occhio della testa. Ma anche i truccatori e i parrucchieri, di cui sembravo disdegnare la maestria e le redattrici di moda, di cui non rispettavo i tabù.
Ma le riviste pubblicavano le mie foto, perché il prêt-à-porter chiedeva immagini più realistiche e perché le redattrici in capo cominciavano a capirlo.
1962, Roma, for Herper's Bazar, Debora Dixon |
Cos'è fuori luogo?
Chi è questa bella ragazza in questo baule? Perché quest’uomo seduto mostra la schiena a questi tre fantasmi ed a questo guerriero stanco? Che aspetta questo damerino imbarazzato e circondato da gnomi sprezzanti?
E' il fotografo che li ha messi in scena? E se no, perchè son lì?
Le didascalie potrebbero darvi una risposta, ma avete veramente bisogno di saperlo?
Il fatto è che non tutto è sempre necessariamente al suo posto. Ed è probabilmente quello che a quel momento mi fece premere il bottone. E che ora vi incuriosisce.
2006, Boulogne-Billancourt (France), mandarine peel |
Come diceva il mio amico Marc Riboud : 'Se preferisco fotografare ciò che si muove, è perché essenzialmente la fotografia è il fatto di catturare un momento piuttosto che un altro, di coglierlo quando è maturo, di arrestarlo al momento giusto. Come la nota giusta in musica, l'equilibrio giusto in architettura. La soddisfazione è tanto più grande quanto l'esercizio è più difficile e gli elementi da combinare più diversi, più mobili e meno prevedibili.’ (Registrato nel 1986, pubblicato nel 1990, nel mio libro ENTRE VUES.)
Io la penso come lui. È quando il vostro soggetto si muove, che prendete il toro della fotografia per le corna. O, come dicevo ai giovani fotografi che mi mostravano le loro nature morte: 'Se fotografate solo ciò che vi lascia il tempo di cambiare idea, perdete i benefici di rischio.'
Eppure, alcune delle mie foto sembrano provare il contrario: queste scarpe, fotografate nel 1949 a Milano, non rischiavano di sfuggirmi! (Non ricordo l’occasione dello scatto, ma si direbbe che ho avuto il tempo di cambiare idea più volte...).
D'altra parte il controluce, ma anche il ricordo di come allora lavoravo, mi fanno pensare che questa foto non è stata messa in scena: probabilmente rimasi colpito dalla luce e dalla disposizione degli oggetti, come quando crediamo di riconoscere un déjà vu - senza sapere se fa parte della nostra esperienza o di una nostra associazione di idee.
Dunque, dopo tutto, un momento decisivo: non tanto nell'esistenza fisica di questi oggetti, quanto nel flusso delle mie associazioni mentali.
1950, Venezia (Italy), fashion show |
Questo attributo volgare, applicato ad immagini fotografiche, chiede una spiegazione. Ma preferirei che la troviate da soli. Se alcune di queste foto vi fanno sorridere, siete sulla strada giusta e non vi sarà difficile riconoscere una foto fessa quando la incontrerete.
Se le metto per ultime, è perché sono tra le mie preferite. E se la qualifica sembra ingiuriosa, è solo come quando una madre chiama affettuosamente furfante il suo bambino.
Per esempio 1950, Venezia. La sfilata non era niente di speciale, a parte il palazzo sul Canal Grande dove si svolgeva, gli stucchi dorati del soffitto e i nomi storici di di alcune delle spettatrici. La modella non era una Venere, anche se il signore sul divano (probabilmente il marito di una delle clienti) sembra interessarsi più a lei che al vestito che indossa.
Avevo 22 anni, scattavo con un flash e facevo del mio meglio per soddisfare la stilista che mi pagava. Quando vidi questa foto tra i provini, non ne pensai un gran che e non avrei neanche conservato il negativo, se non avessi deciso di conservare un’altra foto sullo stesso film. (E' così che al tempo della fotografia argentica certi scatti sfuggivano alla pattumiera).
Poi un giorno, sfogliando i contatti, l’ho vista con un altro occhio. Ciò che mi era sembrato banale ha preso un significato, rivelando qualcosa di cui al momento non mi ero renduto conto. O forse me ne son renduto conto senza saperlo. Forse erano queste cinque espressioni, della modella e dei quattro spettatori, al momento in cui sono illuminati dal flash. Ma al momento della ripresa non potevo distinguerli, i loro visi si perdevano nell’ombra!
Questo, in sintesi, è il miracolo di una foto fessa: essa rivela qualcosa, ma non esiste nessuna ragione per credere che il fotografo lo sapesse!
Edouard Boubat citava spesso una frase di Borges: ‘Uno scrittore, che scrive solo ciò che crede di scrivere, non può essere un grande scrittore’. Se questo è vero, un fotografo non può decidere di fare una foto fessa: essa può solo essergli offerta. Come, secondo Sant’Agostino, la salvezza eterna.
1945, Lugano (Swizzerland), self-portrait |
L'autoritratto è un esercizio non meno lecito che la masturbazione, con il vantaggio supplementare dell’ineccepibilità.
Basta pensare a Dürer, Raffaello, Leonardo, Rubens, Rembrandt, Velasquez, Chardin, Goya, Delacroix, Van Gogh, Cézanne, Picasso, Francis Bacon.
E naturalmente a Montaigne: "E così, trovandomi sprovvisto e privo di altro argomento, mi sono presentato come oggetto di studio a me stesso. Questo è l'unico libro del suo genere, e di fattezza selvaggia e stravagante".
Curiosamente, non ricordo molti autoritratti di fotografi (tranne quelli che ne hanno fatto una specialità). Forse perché i fotografi preferiscono osservare ciò che li circonda.
D'altronde ho fatto la maggior parte dei miei piuttosto sul tardi: il vantaggio dell’autoritratto è di disporre di un modello docile e sempre disponibile. I problemi che si incontrano sono quasi tutti tecnici: il fotografo non vede quello che coglie (se dirige l’apparecchio verso se stesso), inverte la destra e la sinistra (se si fotografa in uno specchio), vede la macchina nell’inquadratura (nello stesso caso), ha bisogno di una terza mano per scattare (se fotografa le proprie mani).
Ma il problema più grande è che trovarsi di fronte a se stessi può diventare noioso - a meno di essere Montaigne. Questa è la ragione per cui questo capitolo è più breve degli altri.
ORARIO: dal giovedì al sabato 15.00-19.00 e la domenica e festivi 10.00-19.00
Biglietto: intero 6.00 euro | ridotto 4.00 euro